Non rompetemi i coglioni

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Non rompetemi i coglioni, non rompetemi le palle!
Cosa cazzo volete? Avete detto qualche cosa? Volete qualche cosa?
Io vi spacco il culo e la faccia. In ordine sparso.
Vi spezzo le ossicine. Guardatevi, con le vostre gambette da figa.
Lasciatemi gridare. Tanto poi mi passa. Ma adesso vi odio. Troppo.
Ho l’anima sbollentata come una patata. Ho una pustola caricata a puré, una piaga da decubito in teflon. Ho la pelle graffiata a morsi.
Sparite. Ma prima fottetemi l’anima. Tagliatemi la barba, levatemi la maschera. In cambio io vi prenderò a calci nel culo, così, senza motivo.
Oppure datemi un tiro di canna. Almeno mi addormento, e forse sogno. E poi mi risveglio. Domani é un altro giorno ed é un giorno buono per essere incazzati.
Fino a che tutto finisca.
È dura spegnere fiamme pisciando. O soffiandoci sopra rutti all’idrolitina.
Hai voglia a scappare.

La gente in questa sala d’aspetto d’aeroporto russa. Tutti aspettano un bus per una nuova destinazione. Io vado a casa, o almeno così credo.
L’aereo al solito ha fatto ritardo e il mio bus é alle sei domani mattina. Adesso sono quasi le tre. Il mio posto peró é libero. É sempre libero. Lí nell’angolo della sala d’attesa.
Tiro un rutto discreto all’idrolitina, tanto qua dormono tutti. Il pub dell’aeroporto é chiuso e mi tocca inventare rumori casalinghi. Una madre con figliola si abbracciano sebbene non faccia freddo.
Una hostess ritardataria mi guarda. La guardo. Scatta il gioco delle fantasie. Anche quello delle nostalgie. Scatta anche qualcos’altro. A volte gli sguardi funzionano. Reciprocamente…
Domani taglieró barba e baffi, accorcieró i capelli e mi daró malato. Metteró il mio maglione preferito, quello coi buchi sui gomiti e altrove, sopravvissuto agli anni e a ire censorie e faró un salto al pub.
Prenderó una birra, accenderó una sigaretta e faró il punto della situazione.
Forse piú che un punto.
Magari una retta della situazione, meglio ancora un cerchio per comprendere tutto.
Saluteró chi c’é da salutare. Verró salutato dalla cassiera bionda che mi riconoscerá solo alla terza ordinazione. Mi lascieró coccolare un po’, poi faró finta di niente.

Faró finta di essere ancora sulla strada, riportandomi a casa, da Alcatraz.
Ho appena lasciato Sharon nel parcheggio di uno shopping center foggiano a due suoi amici.
Due ore di ritardo.
Risultato di una gita panoramica per le colline attorno a Nocera Umbra. E a Camerino. Peraltro paesaggi abbastanza piacevoli alla vista.
Peccato che la mia auto sia poco adatta alle gite fuori porta.
Mi ero dimenticato di dire, prima di partire, che io avró si lo spirito del viaggiatore, ma ho anche la tendenza a perdermi. Mi manca l’istinto dello svincolo autostradale.
Controprova: il mio arrivo a casa nel cuore della notte é stato accolto con un “Dove ti sei perso stavolta?”.
Scusa cara compagna di viaggio.
Scusa anche la mia macchina. È macchina proletaria. Basta coccolarla ad olio e benzina e macina chilometri, ma coi conforts di un carretto di quelli costruiti da bambini con vecchie travi e cuscinetti a sfera. Avrebbe dovuto portarmi fino in Inghilterra, una volta…
Scusa anche questo compagno a volte un po’ musone.
Ti ho lasciato in un parcheggio, come in un drive-in di cinema d’oltreoceano. C’era anche un MacDonald. Meno male che noi non siamo mica gli americani. Facciamo finta di niente.

Facciamo finta che stia tutto per iniziare. Che io sia ancora in quel bar alle 7 di mattina a fare colazione cappuccino e cornetto ché i krapfen ancora devono uscire. Fuori la mia macchina ha 1700 kilometri di meno e qualche speranza di vita in piú. Qualche kilomentro piú a nord mi aspetta una coda che mi fará perdere quelle due ore canoniche. Se non mi perdo io, la madonna della strada provvede in altri modi. A volte piacevoli, a volte meno.
Finisco il cappuccino, risalgo in auto, accendo sigaretta e motore in ordine sparso, metto la cintura, il lettore CD collegato alla buona suona Compay Secundo a salti. Dopo solo dieci kilometri devo sostituire le pile.
Trovare lo svincolo adesso non è difficile. Questa strada la faccio quasi ogni mese, porta all’aeroporto. Questa volta lo salto. Questa volta salgo più su.
La macchina arranca per raggiungere una velocità detta di crociera, il sole inizia a scaldare il vetro del parabrezza. Anche quest’anno arriverò con gli avambracci cotti.
Metto occhiali da sole sperando di coprire le occhiaie della sera prima.
“Domani parto.”
“E dove vai?”
“Ad Alcatraz.”
“e dov’è Alcatraz?”
“A Casa del diavolo.”
“Cicileu”
“ieu ieu”
La bottiglia di Mezcal urta contro qualcosa. Di nuovo faccio finta di niente.

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